I Miti di Cthulhu di Alberto Breccia
Storytelling Fumetti, LovecraftIn questo blog abbiamo già parlato di capolavori a fumetti tratti dalle opere di Lovecraft, come Providence. Oggi tratteremo una produzione artistica che ha sancito un vero e proprio spartiacque in fatto di rappresentazione dell’orrore cosmico: I miti di Cthulhu, recentemente ripubblicato in Italia da Mondadori, che raccoglie una serie di racconti di Lovecraft, adattati, con l’eccezione de La ricorrenza, da Norberto Buscaglia.
Leggi tutto: I Miti di Cthulhu di Alberto BrecciaAlberto Breccia (1919-1993) è stato un celebre fumettista argentino, riconosciuto come uno dei più grandi maestri del fumetto sudamericano e internazionale.
Breccia è noto per la sua straordinaria abilità nel creare atmosfere cupe e suggestive, utilizzando una vasta gamma di stili e tecniche artistiche.Un capolavoro di Breccia è stata la sua collaborazione con lo sceneggiatore Héctor Germán Oesterheld nella serie “Mort Cinder”-
A partire dal 1973 Breccia si cimenta negli adattamenti di molteplici racconti dello scrittore di Providence: ai testi abbiamo Norberto Buscaglia che realizza adattamenti molto fedeli ai testi di partenza, ma purtroppo questi talvolta non viene nemmeno citato come co-autore, probabilmente per via dell’enorme fama degli altri due soggetti coinvolti.
Rispetto alle altrettanto celebri trasposizioni di Gou Tanabe, le quali si distinguono per un taglio grafico preciso e rigorosissimo, che riesce a dare palpabile concretezza a esseri sulla cui natura non si può sindacare, il tratto di Breccia è esattamente l’opposto.
Un guazzabuglio di tratteggi densi e oleosi, nei quali i mostri non sono esseri in carne e ossa ma concetti mostruosi lontani dalla nostra percezione del reale, e pertanto impossibili da descrivere a parole.
Una nebbia visiva che confonde lo spettatore, mostra senza rivelare davvero, distorce i sensi con forme e proporzioni insolite. Non solo gli esseri provenienti dall’altrove, ma anche i protagonisti umani spesso e volentieri sono rappresentati in maniera espressionista, come se anch’essi fossero ormai troppo lontani dal reame del consuetudinario.
L’effetto è ottenuto anche ricorrendo a una serie di collage che permettono di generare figure che stridono con il resto delle vignette, perciò appropriate per rendere l’idea di stortura rispetto alla razionalità umana.
In “La Ricorrenza” seguiamo la discesa, metaforica e fisica, del protagonista nelle viscere della antica cittadina di Kingsport, per adempiere all’antichissimo rito della Ricorrenza tramandato da secoli nella propria famiglia. Le sagome poco definite delineano il concetto di un’umanità tale solo di nome, fedele a presenze innominabili che si celano nelle viscere della terra, e che hanno imparato a camminare quando invece dovrebbero solamente strisciare. Alternando il tratto a mano con l’impiego di fotografie l’autore riesce a rendere efficacemente l’ambivalenza di Kingsport, arcaica e refrattaria alla presenza umana prima di Yuletide e moderna e piena di vita subito dopo.
La sfida incredibile vinta da Alberto Breccia è proprio quella di riuscire a mostrare visivamente ciò che per definizione è indescrivibile e troppo orribile per essere narrato.
In “Il Richiamo di Cthulhu” il Grande Cthulhu non spaventa perché è un essere titanico, potentissimo e ultraterreno: spaventa perché è qualcosa del tutto contrario alla nostra concezione del reale, che non può esistere secondo le leggi di natura a noi note. Pertanto, l’artista lo rappresenta in una forma assolutamente impossibile da descrivere a parole, che va addirittura oltre gli sforzi di Lovecraft di darci perlomeno una fisionomia base riconoscibile. Qui non abbiamo più una piovra antropomorfa con ali sulla schiena, ma un vero e proprio fenomeno extracorporeo di cui nessuna parte è facile da descrivere.
In “La cosa sulla soglia” si denota una certa tendenza ad applicare un tratto denso e pastoso dove i contorni sono poco definiti e tutto il confuso. Sicuramente una scelta voluta per rispecchiare il clima di indeterminatezza e di scambio continuo tra le personalità del povero Edward Derby e di sua moglie Asenath Waite, perfida strega decisa a impadronirsi del suo corpo per padroneggiare al massimo i propri poteri.
In “L’Abitatore del Buio” lo scrittore Richard Blake si stabilisce nella chiesa di Federal Hill di Providence, che gli italiani del posto da lungo tempo ritengono infestata da un essere ostile alla luce del sole. In effetti l’edificio era oggetto dei culti della Saggezza Stellare, una setta che lo evocava tramite un Trapezoedro Brillante non forgiato su questa Terra. L’incauto Blake posa i suoi occhi su di esso e da allora inizia a entrare in contatto con orridi segreti dello spazio profondo, mentre l’Abitatore del Buio striscia inesorabile verso di lui.
Breccia decide di puntare sullo stile espressionista fatto di contorni spigolosi e di un rigido utilizzo di di bianchi e neri per enfatizzare l’alienazione del protagonista dal mando razionale e dagli altri cittadini, troppo terrorizzati dalle proprie superstiziosi per fare niente che non sia pregare.
In “L’Orrore di Dunwich” il dottor Armitage scopre che Wilbur Whateley di Dunwich, un ragazzo dal terrifico aspetto caprino che cresce a un ritmo innaturale, pianifica di attuare il volere di suo nonno e di rendere possibile il ritorno degli Antichi sulla Terra guidati da Yog-Sothoth.
Il lettore scopre alla fine che Wilbur è il figlio semiumano di Yog-Sothoth stesso e che ha un fratello gemello, addirittura più mostruoso di lui siccome assomiglia di più al padre.
Anche in “L’Orrore di Dunwich”, il talento visionario dell’artista si scatena nella rappresentazione del mostro del titolo, una forza blasfema raccapricciante normalmente invisibile agli occhi, e che quando diviene invisibile è troppo sbagliata per i nostri canoni per essere concepibile.
Similmente a ciò, le creature di “La città senza nome” sono esseri indescrivibili sia per il narratore che per lo spettatore, rendendo persino meno comprensibili i già vaghi accenni a una fisicità morbosa dell’autore di Providence, e perciò ponendo il tutto in uno stato di terrore ancora più avanzato.
In “Il colore venuto dallo spazio” il vecchio Ammi Pierce rievoca la vicenda di decenni prima che portò alla disgrazia dei Gardner, una famiglia di agricoltori la cui unica colpa era stata quella di possedere il terreno nel quale si era abbattuto un misterioso meteorite. Dal corpo celeste si libera un colore indescrivibile per gli standard umani, che attecchisce nel terreno e inizia a contaminare tutte le forme di vita presenti. Un po’ alla volta la famiglia Gardner si disgrega fisicamente e mentalmente decadendo in condizioni sempre più bestiali e corrotte fino a che non resta nulla di loro. Una volta ultimato il suo ciclo vitale, il Colore riparte per lo spazio, lasciando forse un suo simile in quella che da allora è nota come la Landa Folgorata.
L’attento uso dei tratteggi e l’alternanza tra bianchi e neri permette di delineare sagome contorte e inumane per la condizione di degenerazione che stanno vivendo, con possibili rimandi al cubismo che si evidenziano nella innaturalezza di forme e proporzioni delle creature rappresentati.
In “La maschera di Innsmouth” gli onnipresenti grigi oppressivi ci accompagnano al fianco del protagonista, capitato in una detestabile località marittima nella quale si compiono sacrileghe unioni tra gli abitanti ed esseri dell’abisso che non dovrebbero esistere. Qui le sagome umane sono più facilmente riconoscibili, probabilmente per evidenziare il distacco tra i cittadini normali e i grotteschi abitanti di Innsmouth colmi di tratti anfibi repellenti.
In “Colui che sussurra nelle tenebre” il protagonista Wilmarth si reca a trovare un suo corrispondente del Vermont, Akeley, che sostiene di essere perseguitato da una razza aliena, i Mi-Go, i cui esponenti hanno alleati tra gli umani. Quando l’uomo incontra Akeley lo trova stranamente bendisposto ai piani dei Mi-Go e alla loro pratica di giungere fino al remoto Yuggoth nella sola forma di cervello.
Ciò che scopre con orrore nel finale è che il vero Akeley probabilmente è stato ridotto a mera materia cerebrale, e che quello con cui ha parlato durante la visita era probabilmente un impostore alieno perfettamente camuffato. Anche qui le figure umane – si fa per dire – sono contorte e abnormi, tanto è lontana dal convenzionale la situazione nella quale si trovano ad agire.
In definitiva, Alberto Breccia ha saputo dare vita a un’opera unica nel panorama delle trasposizioni a fumetti dei racconti di Lovecraft. Una serie di graphic novel dallo stile inimitabile perfettamente consapevoli dello stato di terrore che le storie devono incutere nel lettore anche attraverso le immagini.
Se proprio si vuole trovare un difetto, potrebbe essere la fedeltà fin troppo accentuata alla narrativa di Lovecraft. I dialoghi farraginosi e del tutto privi di naturalezza vengono ripresi pedissequamente, oltre a interi paragrafi dei racconti che accompagnano le vignette, rendendo queste graphic novel più vicine a vere e proprie versioni illustrate dei racconti che a fumetti provvisti di anima propria.