Lo storytelling applicato a prodotti narrativi – di Daniele Fusetto

Lo storytelling applicato a prodotti narrativi – di Daniele Fusetto

Chi è Daniele Fusetto?

Ciao a tutti! Sono uno storyteller, un game designer e un appassionato di narrazione. Quando posso scrivo giochi di ruolo da tavolo (e gioco a quelli di altri) o compongono canzoni prog rock!

Nel 2018 ho fondato Storytelling Mercenario una piccolissima attività di consulenza di storytelling per prodotti narrativi, perlopiù giochi e romanzi. L’idea è aiutare altri creatori di prodotti narrativi sia a crearli con meno problemi, sia a comunicarli meglio. In parallelo, insieme ad alcuni colleghi storyteller, sto gettando le basi per un’attività di consulenza più specifica per aziende del settore eventi chiamata Storyholders.

Oltre a ciò sono blogger di Storie di Ruolo, un sito dedicato a giochi di ruolo e narrazione, e fondatore e gestore di GDR al Buio, un format di gioco di ruolo organizzato.

Quando hai scoperto la tua passione per la narrazione e lo storytelling? 

Parto dalla narrazione, perché lo storytelling è qualcosa di più recente. Avevo 13 anni quando ho iniziato a giocare di ruolo e a fare il “master”, ovvero colui che nei GDR gestisce e aiuta a creare la storia. Credo che sia iniziata lì la mia passione per le storie e la narratologia. Mi sono iscritto a Lettere Moderne per approfondire. Volevo scrivere romanzi e giochi di ruolo. Con mia grande sorpresa, di narratologia e narrazione ho trovato ben poco. 

Non fraintendetemi, non era certo un corso di “game design” che mi aspettavo, ma sicuramente qualche lezione sulla scrittura e sulla costruzione delle storie. Lettere Moderne mi ha dato una grande formazione umanistica, ma di certo non capacità comunicative adatte al mondo di oggi e al mondo digitale soprattutto. 

A quel punto l’idea di sfruttare le competenze apprese per scrivere era vetusta. Mi sono chiesto allora: “come posso renderle utili per il mercato del lavoro?”. Fu in quel momento che lessi un articolo sull’esperimento di Rob Walker e Joshua Glenn, Significant Object. Avevano dimostrato che tramite delle storie oggetti comuni potevano incrementare il proprio valore di vendita. Avevano, cioè, dimostrato che narrare una storia può aiutarti ad aumentare il valore di ciò che comunichi — e incrementare le vendite, in quel caso.

All’epoca c’erano già i primi che si fregiavano del titolo di storyteller, ma devo ammettere che li ritenevo un po’ dei palloni gonfiati. E so che facciamo questo effetto, che sembriamo così astratti e un po’ fuffaroli… perché era quello che pensavo anche io! Presi dunque un’altra strada, per poi però tornare all’ovile.

Come hai cercato di tramutare questa passione in lavoro?

Mi sono inizialmente focalizzato sullo studio del cinema e delle serie televisive, uno dei curricula permessi a Filologia Moderna. Questo mi ha permesso di approfondire le teorie più famose della narratologia, come quelle sulla fiaba di Propp o il viaggio dell’eroe di Campbell, ma anche di avere tempo e risorse per comprendere framework meno famosi o diffusi — in special modo l’arco di trasformazione del personaggio di Dara Marks. 

Poi è arrivato il narrative designer, una professione presente nel mercato dei videogame che sembrava rispondere alle mie esigenze. Purtroppo all’epoca non c’era un istituto in Italia che avesse corsi a riguardo — solo Accademia Italiana dei Videogiochi ha un bel programma dedicato alla narratologia e alla narrazione, ma l’ho scoperto solo quest’anno. 

Così ho fatto quello che tutti noi sappiamo fare meglio: mi sono adattato. Ho preso di petto lo storytelling d’impresa, prima come autodidatta, poi frequentando e concludendo il Master in Marketing Utilities and Storytelling Techniques dell’Università degli Studi di Pavia. E una delle prime lezioni che abbiamo frequentato cosa mi ritrovo? L’esperimento di Walker e Glenn sui Significant Object. Ero a casa.

Piccola digressione: per narrative design cosa intendi?

Ho scoperto questa disciplina tramite un annuncio di lavoro qualche anno fa. Come anche per la narratologia, ho dovuto operarmi per trovare fonti e libri su cui studiare, scoprendo così che era un ruolo prettamente dell’industria videoludica. 

Ho rispolverato quelle conoscenze quando ho affrontare il Master perché mi sono accorto che condivideva molto con lo storytelling d’impresa. Ad esempio, lavorano entrambe sul creare comunicazioni semplici ed efficaci per convincere un lettore — per un narrative designer potrebbe essere un pitch da sottoporre ad un produttore, per uno storyteller un messaggio chiave che permette di orientare la comunicazione in modo adeguato verso il pubblico. 

Io utilizzo il termine narrative design quando in un progetto mi occupo di supportare e potenziare lo sviluppo di un prodotto. O di un’idea, in generale. Per distinguerlo dallo storytelling d’impresa, che invece è comunicazione narrativa verso un pubblico.

Concept e sviluppo in team dici. Come lo storytelling può fornire strumenti a riguardo?

Il nostro cervello è costruito per leggere il mondo attraverso le storie. Ormai tutti citano i lavori di Yuval Noah Harari (Da Animali a Dèi, ad esempio), ma questo era già noto dagli studi delle scienze neurocognitive. Innovare e creare nuovi prodotti non è tanto diverso, cognitivamente parlando, dal raccontare una storia: al pubblico del prodotto, certo; ma prima anche ai membri del team, agli stakeholder, agli investitori.

Quante volte capita che un progetto dal grande potenziale si trovi bloccato da dinamiche di sviluppo o pratiche un po’ vetuste? Il classico “si è sempre fatto così” o una comunicazione troppo burocratica durante i processi di sviluppo. Certo, esistono framework che sopperiscono a questo problema, come l’Agile (di cui stiamo a mio parere scalfendo la superficie, qui in Italia). Ma uno storyteller può mettere a servizio la parte della disciplina più vicina al narrative design e al design thinking

In concreto, quando sono a supporto del narrative design di un progetto, quello che faccio è costruire delle mappe per non perdersi. Alcune permettono al team di potenziare il brainstorming, altre di capire meglio a che punto si è del processo di sviluppo. In alcuni casi è capitato di passare oltre a questa linea e occuparmi più prettamente di content creation, ma sempre a livello di strategia narrativa. Poi, se serve anche migliorare la comunicazione interna del team, tiro fuori gli strumenti di storytelling più vicini all’employer branding.

Cosa intendi per Employer Branding? 

Finora lo storytelling d’impresa è stato visto come una disciplina che applica scientificamente le competenze narrative in tre ambiti: il product branding, il corporate branding e l’employer branding. In quest’ultima incarnazione si occupa di comunicazione interna dell’azienda verso i propri lavoratori. 

Gran parte delle esperienze di tirocinio formativo portate avanti grazie al Master che ho frequentato è stato in questo ambito. È un lavoro delicato, in cui credo di avere ancora bisogno di competenze ed esperienze del lato più prettamente human resources; nonostante ciò, gli strumenti cambiano poco.

Per l’azienda, i propri lavoratori sono un pubblico e le trasformazioni che porta avanti devono essere comunicate al meglio. L’obiettivo è come sempre incrementare il valore. Può essere il valore umano dei dipendenti, ovvero aiutarli a raggiungere nuove competenze con meno sforzi. Oppure il valore del lavoro, essere più produttivi. Ora, può sembrare manipolatorio o forzato; ma in realtà lo scopo è rendere il lavoratore più coinvolto nelle decisioni e trasformazioni aziendali.

Per questo a volte sfrutto anche strumenti e meccaniche derivate dai giochi di ruolo o da tavolo. Insomma, un po’ di gamification, anche se questo termine non mi è molto congeniale.

Parlaci di più di come la gamification s’innesta in queste operazioni, del rapporto tra Game Design e Storytelling

Ci provo, non è semplice definirlo in breve! Prima di tutto, quando applico teorie e competenze di game design allo storytelling introduco sempre il concetto di human-focused design, che molti esperti di gamification preferiscono (uno su tutti Yu-Kai Chou, che è un po’ il pioniere dell’argomento). Detto in questi termini, stiamo parlando della stessa cosa di prima: progettare processi di lavoro in cui l’uomo è al centro, lavorando sui suoi bisogni e sulle sue motivazioni.

Qui si va un po’ a sovrapporsi con altri ambiti come l’user experience e l’user design, ma chiarisco ancora di più andando nel concreto: un progetto di employer branding che sfrutta l’human-focused design può riguardare la sicurezza sul lavoro comunicata tramite un’app che fornisce ricompense visive o “sblocca” storie significative di lavoratori ogni volta che fotografi un uso corretto di un’attrezzatura o di una strumentazione. Uno storyteller si occupa ovviamente del lato comunicativo, coordinandosi con le altre professionalità per aiutarle nei loro compiti.

Parliamo ora del Product Branding, l’altro lato della medaglia: supponiamo di avere qualcosa da comunicare che già esiste. Come lo storytelling può aiutarci?

In questo caso parliamo di storytelling d’impresa puro. Non stiamo aiutando un team a potenziare e rendere concreta un’idea, ma ad aumentare il suo valore e generare più vendite. 

Ci si affianca in questo caso a chi si occupa del marketing più classico e si crea un percorso complesso e che può sembrare astratto, ma riassumibile in tre fasi: analizzare il pubblico dei lettori, capire quali features e narrazioni possano attivarli e… beh, attivarli.

Il tipo di analisi che fornisce lo storytelling è qualitativo: è come se sondassimo il fondale di un oceano per portare in luce un tesoro che la nave trasportava, ma che stava per perdersi dopo un naufragio. Quel tesoro sono storie. Storie che aumentano il valore di ciò che comunichiamo perché coinvolgono il pubblico su un livello più profondo, più autentico. Così tanto che, a volte, non serve neanche incentrare la comunicazione sul prodotto in sé: ne sono testimonianza le campagne pubblicitarie di grandi brand come Adidas o gli Shangri-La Hotel.

Come è possibile tutto ciò? Cosa intendi per analisi qualitativa?

Esistono strumenti che si affiancano all’analisi dei dati tradizionale chiedendosi: cosa sa il pubblico di ciò che devo comunicare? Che tipo di pubblico è? Quali bisogni vengono risolti da ciò che devo comunicare? Come devo comunicarmi per far sì che il pubblico capisca che non sto solo sfruttando un’idea per fare soldi, ma che dietro al progetto c’è passione e cuore?

Per poter colpire nel segno ciò che serve è una conoscenza profonda portata avanti con indagini a campione ristretto, estese, simili ad una intervista, ma atte a capire le storie del pubblico. Questo ci porta a stabilire una serie di messaggi chiave che attivano la mente del lettore, evocano un corretto mondo narrativo e convincono. 

Hai detto che ti occupi perlopiù di prodotti narrativi (romanzi, giochi, media). L’approccio verso prodotti non-narrativi è differente?

È più delicato, credo, praticare narrative design e storytelling d’impresa a prodotti narrativi. Questo perché il pubblico di un romanzo o di un gioco credo sia più competente e più interessato al prodotto. Vogliono, in altre parole, che ciò che comprano non solo soddisfi un bisogno, ma sia piacevole e di “intrattenimento” (ma non sono molto fan di questa parola).

L’approccio, però, è il medesimo. Lo conferma il fatto che si possono sfruttare egregiamente tecniche di narrative design per migliorare la produzione di una cover per smartphone o di un nuovo servizio bancario. Sempre più spesso nei team di sviluppo si incrociano le competenze, le famigerate “matrici” aziendali. 

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